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«Non avrei mai creduto che a sessant'anni mi sarei trovato a sedere in un piccolo villaggio brasiliano, servito da una giovane nera scalza, a decine di migliaia di chilometri da quella che una volta era la mia vita: libri, concerti, amici, conversazioni.» Chi scrive non è un antropologo, un medico filantropo o un cineasta d'avanguardia. È Stefan Zweig, l'autore straordinariamente prolifico, il «sovvertitore dei sensi», l'intellettuale celebrato come una star, attorno al quale si stringeva un cenacolo frequentato, tra gli altri, da Freud, Mann, Roth, Einstein, catalizzatore di alcune fra le correnti artistiche e filosofiche più importanti del Novecento. Finché Hitler non ne mise al bando i libri e lo costrinse ad abbandonare il suo Olimpo glorioso e gli adorati caffè, dove leggeva il giornale o giocava a scacchi, per abbracciare le mille esistenze dell'esule. "L'esilio impossibile" racconta la vita tormentata, l'allontanamento forzato e il triste epilogo di un grande scrittore, «il settemila volte trasmesso in radio, filmato e fotografato Stefan», morto suicida nel 1942 a Petrópolis, Rio de Janeiro. E attraverso il suo ritratto scandaglia la tragedia che il popolo ebraico e la generazione degli émigrés contemporanea a Zweig dovettero affrontare: spogliato della propria identità, l'esule è un Ulisse condannato a errare senza la protezione degli dèi, in bilico tra senso di appartenenza e slancio cosmopolita e, nel caso dell'artista, tra impegno politico e desiderio di trascendenza. In "L'esilio impossibile", George Prochnik fa convergere l'onta dei due grandi conflitti mondiali e il destino dell'Europa nel solco della biografia di Stefan Zweig: l'instancabile sostenitore di un umanesimo universale e il nobile pacifista dalla prosa indiavolata, la cui generosa signorilità e il cui fascino sensuale stillano da queste pagine come rugiada destinata, nell'eco infernale del gorgo bellico, a tramutarsi in lacrime.